La ricerca di Mimmo Paladino (Paduli, Benevento, 1948), incentrata inizialmente sulla fotografia e, parallelamente, su un’assidua pratica del disegno, ha sviluppato un linguaggio fra i più personali e autorevoli degli ultimi decenni, articolato intorno ad una complessa iconografia fantastica, le cui radici sono rintracciabili nella cultura mediterranea. Tra i protagonisti di quel ritorno alla pittura che caratterizza la fine degli anni Settanta, è autore del celebre Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro (1977), quasi una dichiarazione programmatica, per un’opera oggi considerata esemplare di quel passaggio, seguito alla lunga stagione concettuale. Gli anni compresi tra il 1978 e il 1980 sono segnati dalla produzione di dipinti monocromi a tinte decise, sui quali si accampano strutture geometriche. Queste opere testimoniano un periodo di transizione verso una rinnovata attenzione verso la pittura figurativa, il recupero di moduli linguistici che riemergono dalla tradizione e dalla storia dell’arte, recuperando la dimensione soggettiva dell’atto creativo: presa di posizione decisa in favore delle “ragioni della pittura”, che lo avvicina a quegli artisti – Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Sandro Chia e Nicola De Maria – che sarebbero stati gli autori della Transavanguardia.
Paladino esplora sincreticamente la cultura cristiana e la mitologia classica, l’antico Egitto e il mondo etrusco, le civiltà preromane e l’arte primitiva, fino alle Avanguardie del Novecento, riferimenti cui si aggiunge, dal 1982, una componente animistica, assimilata durante i numerosi viaggi in Brasile. Sperimentatore costante, l’artista mette in un serrato dialogo pittura e scultura, con l’introduzione nella superficie del quadro di forme modellate e oggetti di recupero che progressivamente si affrancano dall’iniziale supporto per vivere autonomamente nella terza dimensione, mentre le sue sculture rimandano a efebici manichini primordiali dall’espressione astratta e sospesa, assorti in una calma straniante, espressione di una metafisica ancestrale e quasi sciamanica, arcaica e onirica, nutrita da riferimenti al mito, all’immaginario archetipico popolato di lacerti, frammenti di figure, mani, teste, elementi di un linguaggio che fonde spazi e tempi diversi, definendo un inconfondibile alfabeto di segni plastici senza una dimensione univoca.
Nel 1990 sperimenta per la prima volta la scenografia, realizzando, per La sposa di Messina di J.C.F. Schiller a Gibellina, la Montagna di sale, memorabile installazione poi riproposta in piazza del Plebiscito a Napoli (1995-96) e successivamente in Piazza del Duomo a Milano (2011). Nel 2000 firma la scenografia dell’Edipo Re, diretto da Mario Martone, esperimento di collaborazione tra teatro e arti visive rinnovato con l’Edipo a Colono (2004), due interventi che valgono a Paladino il premio Ubu. All’insegna dello sconfinamento anche l’incursione nel cinema, con la regia del Quijote (2006), lungometraggio che si configura come un ridefinito percorso di contaminazione tra i diversi linguaggi artistici e narrativi. Più recente è Labyrinthus (2013), dedicato alla vita e alle opere di Carlo Gesualdo da Venosa: “creare un film”, dichiara l’artista, “è qualcosa di analogo alla scultura, ma è come plasmare la luce. Lavorare con la luce che si materializza, che diventa immagine, movimento, parola, suono”.